• Cos’è l’Archivio?
  • Chi è Caltari?
  • Collabora!
Archivio Caltari











  • Scritture
  • Psicogeografie
  • Memorie
  • Segni
  • Generi e relazioni
  • Tipografie
  • Letture
    • E-Book
    • Recensioni
    • Web-comic
  • Rubriche
    • Fotobiografie
    • FuoriFuoco
    • Regole di scrittura
    • Stanze degli scrittori
  • Indice
  • Gli ambi a sorpresa di Caltari
  • cookie privacy
09 Ott 2010

Autore

Abbonàti

Condividi

Articoli correlati

  • Fiordì
  • Interno b4 | Un reportage multimediale e multisensoriale
  • Due prospettive per una Capitale. Roma dagli occhi di Claudia Pajewski e Cedric Lefebvre
  • Musei anatomici 4: Roma, e oltre
  • L’annosa questione delle cingomme: alcune proposte
  • Cartoline a rilievo – seconda parte
  • Cartoline a rilievo – prima parte
  • Musei anatomici italiani 3 – Bologna
  • Un tour geopsichico di New Orleans
  • Dodici utopie urbane mai realizzate
  • Mappe #1
  • Dubai, rivisitata
  • Muri sognanti
  • Gabriele Basilico – Appunti di viaggio fra storie e città
  • Erbario Urbano e Tristissimi Giardini
  • [E-book] Massimo Birindelli – Roma italiana. Come fare una capitale e disfare una città
  • Tutto in ordine – La tassonomia urbana di Armelle Caron
  • Le città fantasma – prima parte
  • Cartoline da un’altra dimensione
  • The Lost Tribe of New York City
Bolzano, Bozen, Pouz’n
Abbonàti 3 commenti Psicogeografie Condividi


di Iguana Jo

(1967-1985)

Casa mia, almeno per la maggior parte dei miei primi 19 anni di vita.

– Da dove vieni?

– Vengo da Bolzano.

– Ma allora parli tedesco…

Chiunque sia il mio interlocutore la sequenza è sempre la stessa: vieni da Bolzano? Allora parli tedesco. Quello che magari cambia è l’intonazione della voce: a volte interrogativa, a volte curiosa, più spesso semplicemente affermativa. Evidentemente in Italia l’idea di Bolzano è questa: terra straniera incidentalmente dentro i patri confini.

Quando cresci in un posto non importa da quanto tempo o come te ne sei andato, alla fine è quello il luogo che chiami casa. Ma Bolzano che razza di casa è? Ricordo che quando me ne andai, vent’anni fa, fu una sorta di liberazione. Certo, ero in pieno dramma adolescenziale, in rotta coi parenti, con una città che non aveva niente da offrire, con la necessità quasi fisica della fuga, con una sofferenza addosso che c’ho messo un sacco di tempo ad ammorbidire, ad addomesticare.

Quello che posso fare è provare a raccontare quello che è stato crescere a Bolzano, le ipotetiche possibilità e le disillusioni della realtà, il potere tranquillizzante del denaro e come la prospettiva possa rendere relativo il concetto di maggioranza; parlare dell’apartheid che ha contraddistinto la mia vita come quella di chiunque sia cresciuto nella provincia di Bolzano durante gli anni 70.

Da quando nasci a quando vai a scuola, dal quartiere in cui abiti al lavoro che ti scegli, dagli amici che frequenti alla tomba che occuperai, tutto è già definito. È tecnicamente possibile non parlare una sola parola di tedesco per tutta la propria vita bolzanina (salvo durante le interrogazioni a scuola).

Ci sono asili, scuole elementari, scuole medie e scuole superiori italiane e asili, scuole elementari, scuole medie e scuole superiori tedesche. Nel raro caso in cui queste siano contigue (vedi la scuola elementare e le medie che ho frequentato) gli orari di ingresso sono diversi. I quartieri sono etnicamente suddivisi, nel punti di contatto ci sono linee di confine invisibili che tutti noi che ci siamo passati conosciamo e riconosciamo. Persino le chiese sono doppie. La stragrande maggioranza dei bar sono etnicamente frequentati, ovviamente le persone che ti trovi a frequentare parlano la tua stessa lingua. Anche il cimitero è diviso tra settori italiani e tedeschi.


(1974-1979)

Hic sunt leones. Uno dei segni di confine che caratterizzava la mia infanzia. Oltre questa cappella iniziava il quartiere tedesco. Un altro mondo con tacito divieto d’accesso, sconosciuto e inesplorato (e lo sarebbe rimasto per parecchi anni ancora).

Vista da fuori la situazione appare del tutto folle. Da dentro è assurdamente normale.

Poi per fortuna la vita è un po’ meno prevedibile delle premesse etniche su cui vorrebbero fondarla, e le cose un po’ più complicate, ma la volontà politica di tenerci separati è evidente.

Nonostante le apparenze Bolzano non è Belfast, e in nessun momento si sono vissute situazioni paragonabili a quelle di altre regioni multietniche, e anche se negli anni 60 si è vissuta una breve stagione di terrorismo indipendentista la situazione non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella dei Paesi Baschi, tanto per rimanere nella civilissima Europa.

Come mai? Siamo naturalmente pacifici, miti e tolleranti o forse i motivi sono altri? Non ho intenzione di inoltrarmi in analisi sociologiche/culturali/politiche/eccetera.

Quello che ho visto e continuo a vedere è che nella ridente provincia bolzanina quella che in teoria dovrebbe essere una minoranza discriminata è in realtà una maggioranza discriminante, che i soldi pacificano molte situazioni spinose, che quando possiedi fisicamente (a volte in maniera legalmente inalienabile) la terra occupata dall’invasore e lo fai pagare pure molto per la sua permanenza non c’è alcun motivo pratico e/o ideale per innalzare barricate (salvo quelle morbide, che umiliano magari lo spirito ma che senz’altro non inducono sofferenze nel circondario).


(1981-1986)

La panchina. Per chiudere in bellezza ecco il posto dove cominciavano le nostre serate. Non è proprio la stessa panchina (nel frattempo hanno ristrutturato il parco, e quindi l’originale non c’è più), però è molto vicina a dov’era la nostra. Immagino che la vita di quasi tutti i ragazzi italiani sia passata per una panchina simile. A Roma come a Bolzano.

Bolzano in fondo non mi manca. Del resto, con i vecchi amici, i ponti non li ho mai tagliati. Torno a incontrarli. Sono tornato a incontrarli. Sono tornato a Bolzano. Già dire sono tornato è sintomatico.

Ritorno a Bolzano non più cittadino, ma nemmeno turista, forse reduce. Da battaglie personali, da incontri, scontri, sconfitte e illuminazioni. Fughe e ritorni. E come un reduce vago per la mia città, la guardo con occhio attento alle minime variazioni, cerco nelle facce delle persone un ricordo, un volto. Il segno di un’appartenenza. Difficilmente capita di incontrarlo, ma in fondo non ne sento più il bisogno e la ricerca è più un’abitudine che una necessità. Che ormai con i miei piccoli fantasmi ho fatto la pace. Che per Bolzano non giro più ramingo, ma passeggio. Che ora che sono lontano è davvero un piacere il ritorno.

Abbonàti 3 commenti Psicogeografie Condividi
2 Comments
  1. 12-10-2010

    Io questo l’ho già letto da qualche altra parte

    Rispondi rayuela
    • 12-10-2010

      certo, era sul blog di iguana jo che ci ha gentilmente permesso di riportarlo qui, insieme alle sue fotografie :)

      Rispondi madame psychosis

Cancella risposta
Che ne pensi?

Archivio Caltari – 09-14 | Alcuni diritti timidi e riservati, altri no | Testata probabilistica aggiornata con frequenza randomica | Frailespatique modificato da Sim Dawdler a.k.a. Simone Petralia

This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accept Read More